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Report desde la Isla

Ultimo Aggiornamento: 22/02/2012 22:02
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12/02/2012 03:32
 
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7° giorno (21 Maggio)

“Bellezze storiche e naturalistiche nei dintorni di Nueva Gerona con visita a Santa Fè”

Dopo una buona colazione, alle 08:45 partiamo dall’Hotel Colony con la nostra auto, diretti a scoprire le meraviglie nelle vicinanze della cittadina coloniale di Nueva Gerona, oggi sarà una giornata molto impegnativa. Percorriamo 46 km inizialmente tra distese di erba bruna, dolci colline con pini marittimi e scuole smantellate, tra piccoli villaggi con annessi campi solcati da vecchi aratri trainati da esili buoi, magre mucche all’ombra di palme Barricone in compagnia di bianchi Aironi guardabuoi, asini e capre che brulicano l’erba più verde a bordo strada e nessuna auto; solo persone a piedi o su calessi e persino un vecchio carro trainato da buoi trasportante latte in vecchi bidoni di latta (un vero set cinematografico anni ’60). Alle 09:30, a circa 3km sud-ovest di Nueva Gerona svoltiamo a sx in un lungo viale di accesso fiancheggiato da alberi di querce ed eucalipti sorvolati da avvoltoi, dolci colline tagliate da cave di marmo e immensi bananeti, che culmina nel piazzale di una piccola bianca Hacienda spagnola ai piedi della “Sierra Las Casas” : la “Finca el Abra” (dichiarato Monumento Nacional). Nel piazzale pascolano capre vicino ad una vecchia meridiana bianca in pietra del 1868 ancora funzionante, maestose radici aeree di una grossa Ceiba piantata nel 1945, circondano parte della casa nel silenzio di questa mattinata assolata. Entriamo, siamo gli unici turisti, subito viene a noi una gentilissima guida, la Senora Marialena che ci ricorda che questa fattoria di proprietà dell’imprenditore Josè Girondella, nel 1870 ospitò l’eroe indipendentista e famoso letterato Josè Martì, che vi trascorse circa 2 mesi prima di esser deportato in Spagna (fu esiliato qui grazie alle conoscenze del padre che gli evitò il carcere). Attraverso le diverse stanzette con portoni di legno blu poste sotto il granaio e laterali al selciato interno su cui passavano i cavalli, la guida ci illustra tutta la vita di Josè Martì tra oggetti della sua camera da letto, antichi orologi e basculanti, libri da lui scritti ed indumenti, registri con pure la firma di Castro, manifesti di battaglie e codici segreti di scrittura e persino parte della catena i cui ceppi furono fusi da sua madre per realizzare un anello che Martì portò sino alla sua morte. Inoltre parte del Museo illustra con fotografie ed oggetti personali, anche la storia della dinastia della famiglia Girondella che ospitò il letterato. Terminiamo la visita nella cucina in pietra della casa che ospita ancora antichi utensili di rame accanto all’ala della casa non visitabile, ma confinante con essa, dove incontriamo una simpatica signora ottantenne nipote ed ultima antenata del Senor Girondella che ospitò Josè Marti. La Senora Marialena ci accompagna in un breve giro attorno all’Hacienda per poi congedarci facendoci firmare come ricordo, il registro delle presenze: non ricevevano visite da più di un anno, dal Giugno del 2010.

Alle 10: 30 lasciamo questa graziosa oasi di pace per dirigerci nel piccolo e tranquillo centro della cittadina coloniale di “Nueva Gerona” (fondata nel 1830 dagli spagnoli) alla ricerca dapprima degli ingredienti per cucinare in serata un buon piatto italiano di spaghetti pomodoro e basilico (albacha) al nostro amico Juan e poi per scoprirne le bellezze architettoniche e locali. Dopo diverse peripezie in 3 diversi chioschi-supermercato a lato della strada (sono baracche di ferro che da noi si usano nei cantieri, dove non si può accedere al loro interno, dalle cui grate l’addetta fornisce i pochi viveri tutti in cuc, solo crackers cinesi, fagioli, riso e niente latticini, frutta, né carne, nulla di fresco, non c’è frigor) troviamo tutti gli ingredienti compreso il tanto prezioso Aceite (olio) per fare il sugo. Siamo gli unici turisti in circolazione (soprattutto abbiamo un auto non anni ’50) e tutti ci osservano con molta curiosità, ma nessuno cerca di venderci nulla, sono tutti incredibilmente accoglienti e si offrono gentilmente di darci informazioni accompagnandoci quando non troviamo un posto, tutto per ingannare il tempo in questa sonnolente e tranquilla cittadina. Parcheggiamo l’auto tra bici-taxi con musica reggaeton a tutto volume, ciabattini e calzolai lungo le vie (trovo il giornale locale la Victoria) e ci dirigiamo nel tratto pedonale animato di Calle 39, fulcro della città punteggiata da piccoli parchi, tra edifici di servizio (banca, posta, supermercato, farmacia, 3 ristoranti locali, negozi di scarpe, ma nulla di souvenir o artigianato locale) e case coloniali ad un piano con spaziosi porticati colonnati color pastello, sino all’incrocio con calle 28 nel “Parque Central” (ovunque cartelli propagandistici con i volti degli eroi nazionali o la scritta “Trabajar, trabajar” = lavorare). Ovunque banchetti di venditori ambulanti di crocchette fritte in casa, arachidi tostati, frutta fresca (platani, pina y maranon), guarapo (succo di canna da zucchero), succhi di frutta (Jugo de Frutas), giocatori di domino sotto i portici e porte delle case spalancate per permettere la vista dei passanti dalla propria poltrona, ciabattini e venditori del giornale “Gramna”. Tra i palazzi più importanti che circondano questo parco-giardino quadrato attorniato da auto anni ‘50 con al centro un chiostro e tanti alberi di flamboyan rossi, visitiamo l’ “Iglesia de Nuestra Senora de los Dolores”, del 1929 in stile messicano gialla e rosa con un balconcino sul campanile ed il parroco che lava il pavimento, il “Museo Municipal” del 1853 beige e bianco con 12 colonne sormontate dalla torretta dell’orologio (noi non lo visitiamo, ma ci dicono esservi ogg. di pirati ed animali impagliati). Una rapida sosta all’unica stazione di benzina Cupè e tra “coches de caballo” con a bordo quadrati di pan di spagna stracolmi di creme (unico dolce prodotto) e mucchi liberi di filoncini tipo sandwich, imbocchiamo calle “C32” poi “C33” sino ad arrivare sulle sponde del “Rio las Casas”. Un rio navigabile con traghetti che partono da Batabanò, piccoli pescherecci colorati e baracche in lamiera con giardino di banani, che culmina nel “Terminal dei Traghetti della Naviera Cubana Caribena”. Qui cerchiamo, l’”Agenzia Ecotur”, l’unica sull’isola in grado di fornirci, avendo già noi un auto a disposizione, un pass valido un giorno ed una guida senza la quale sarebbe impossibile ed inutile oltrepassare il blocco militare di Cayo las Piedras per accedere alla zona militare e visitare le bellezze delle parte sud (cuc12 a testa guida compresa). Sono circa le 13:00, l’agenzia è una minuscola stanza nascosta, parte integrante di un edificio insignificante con un’insegna sbiadita di legno, contenente a malapena un tavolo con 2 sedie ed un vecchio computer; ci accordiamo in via straordinaria per la domenica (anche se ci sarebbe un’esercitazione anti uragani) altrimenti l’unica guida esistente non sarebbe più disponibile causa viaggio all’Habana. Poco distante e sempre lungo le rive del rio, in calle “28”, arriviamo in un grande spiazzo asfaltato (un militare ci osserva da lontano e ci acconsente di parcheggiare) dove padroneggia un grande traghetto nero con la scritta bianca “El Pinero”. Osserviamo questa imponente imbarcazione simil piccolo mercantile, mezzo di trasporto dagli anni ’20 sino 1974 degli isolani diretti a Batabanò, che il 15 Maggio 1955 trasportò Castro e i compagni ribelli sino all’isola principale (rilasciati dal carcere del Presidio Moldelo dove erano stati rinchiusi dopo l’assalto alla caserma Moncada e liberati da Battista stesso come amnistia in seguito alla sua discussa elezione presidenziale). Sono le 13:50, tutt’intorno silenzio e caldo torrido, i cubani sono rinchiusi nelle loro case, casupole alzate alla bell’e meglio (Barbacoas), soppalchi che moltiplicano finestrelle e porte come prolungamento all’infinito dell’abitazione sottostante dal cui balcone una capra ci guarda incuriosita mentre nel giardino sottostante un magro cavallo bianco brulica l’erba precocemente invecchiata dal sole.

Alle 14:00 lasciamo calle “33” e svoltiamo a sx lungo calle “32”, attraversiamo il ponte sul Rio las Casas tra bici-taxi ed innumerevoli biciclette, per circa 5 km, tra immense distese di palme reali, piantagioni di banani e dolci colline alla nostra dx in direzione “Presidio Modelo”. Alle 14:10 lasciamo la strada principale e svoltiamo a dx in una larga via attorniata da semplici, ma graziose e ben curate casette ad un piano con giardino (località Chacon), sino a trovarci in prossimità di una recinzione con cancello; alla nostra sx un campo di pelota con cubani intenti a tifare per la propria squadra mentre a dx una brulla desolazione d’erba bruna, siamo arrivati al “Presidio Modelo” (costruito da Machado tra il 1926 e 1928 su modello di quello di Joliet in Illinois). Al gabbiotto di guardia ormai smesso da anni non si vede nessuno, nemmeno cartelli di divieto, così entriamo direttamente con l’auto sino alla grande scalinata di marmo di un grande edificio giallo (ex casa del governatore), l’ingresso del penitenziario; alla nostra sx una vecchia meridiana in pietra bianca e a dx piccole abitazioni gialle delineate da una cinta muraria che corre tutt’intorno al carcere sino a 2 edifici rettangolari sul lato nord. Decidiamo di arginare in auto questo ingresso ed ai nostri occhi si apre uno scenario incredibile, in mezzo ad una immensa prateria ai piedi di una altura, appaiono 5 enormi e circolari edifici gialli abbandonati, di cui 4 con 5piani ciascuno e celle senza porte, provvisti di una torretta centrale accessibile dal guardiano solo da un percorso sotterraneo (una sola sentinella poteva così sorvegliare 5000 detenuti). Parcheggiamo l’auto e nel silenzio più assoluto (siamo gli unici) entriamo in un padiglione con il tetto in lamiera che lascia intravedere il cielo, al centro la torretta mentre alla nostra dx una scala che ci porta al primo piano circolare. Entriamo in una delle tante celle provviste di un numero nero all’ingresso, è piccolissima (circa 1, 5mt per 2, 5mt), ovunque si vedono ancora sui muri le incisioni dei prigionieri, un piccolo lavandino bianco ed in un angolo un water vicino ad una piccola finestra sulla prateria, su di una parete ancora visibili gli anelli di ferro che sostenevano le corde della brandina, occupando così tutto lo spazio della cella (ognuna ospitava 2 persone, rimanevano in piedi di giorno e con la luce accesa di notte). Ci addentriamo poi nel quinto edifico circolare che si trova al centro degli altri 4, un padiglione più grande adibito a mensa nel quale era proibito parlare; il sole filtra dal tetto in lamiera ormai inesistente su ciò che rimane delle strutture di ferro delle panche e dei tavoli disposti circolarmente rispetto alla torretta centrale, tutto qui fa eco, (anche noi ci divertiamo!) compresi gli innumerevoli uccelli neri che sorvolano le nostre teste. Risaliamo in auto e ci dirigiamo verso due edifici rettangolari del lato nord, ex infermeria che ospitò Castro dal 13 Ottobre 1953 al 15 Maggio 1955, sezione trasformata in Museo quando il penitenziario fu chiuso nel 1967. Anche questo luogo presenta all’ingresso la targhetta di “Monumento Nacional”, decidiamo di visitarlo senza guida (3 cuc a testa+ 5 cuc x fotografare), anche se in realtà saremo accompagnati in ogni stanza e avremo informazioni più che esaurenti grazie alla incontenibile voglia di spiegazioni della guida stessa, forse perché siamo gli unici turisti o perché non passava nessuno da tempo. Entriamo in questo edificio rettangolare dove lunghi corridoi corrono intorno ad un patio centrale interno, qui visitiamo la tavola e la lavagna dove Castro impartiva lezioni ad alcuni detenuti, mentre perfezionava il famoso discorso” la storia mi assolverà”. Entriamo in una stanza rettangolare molto lunga dove 26 lettini bianchi di ferro presidiano ancora le foto segnaletiche dei sopravissuti all’assalto della Caserma Moncada (fra cui Castro ed il fratello Raul), su di ognuno ancora la pezza nera che i detenuti utilizzavano di notte quando appositamente le luci rimanevano accese, tra i letti teche con oggetti personali appartenuti ad essi. Inoltre vi è anche un’interessante mostra di documenti e fotografie della storia del penitenziario, dalla posa della prima pietra sino alle foto dei detenuti stranieri nemici durante la 2 guerra mondiale, quando fu istituito come campo di concentramento per 350 giapponesi, 25 italiani e 50 tedeschi. Poco distante una lapide ricorda l’Inno del 26 Luglio che Castro e compagni cantarono alla visita del 12 Febbraio 1954 al passaggio del tiranno Batista provocandone l’ira, tanto da decidere di mettere Castro in isolamento, al buio completo, in una stanza limitrofa all’obitorio, dove vi sono il suo letto ed disposti in teche di vetro oggetti personali fra cui i suoi libri.

Alle 14:45 lasciamo il “Presido Modelo “ed in prossimità di Chacon svoltiamo a dx per circa 4 km sino ad arrivare a “Playa Bibijagua” (chiamata così per le grandi formiche rosse di color rosso bruno che di notte assalgono le coltivazioni). Sentiamo musica reggeaton ovunque e tra i resti di un grande complesso hoteliero ormai chiuso (ex Resort), tra palme ed uva caleta, spuntano cubani in festa da ogni angolo, un piccolo bar improvvisato in una baracca di ferro offre gelati, refrescos e yogurt in pesos nacional, mentre assonnati autisti di una vecchia Guagua si difendono dai 36°c all’ombra di un albero in attesa di ripartire nel tardo pomeriggio. Parcheggiamo l’auto in una zona verdeggiante in prossimità della spiaggia, una lunga striscia di sabbia grigia che avrebbe bisogno però di una ripulita dalle alghe che vi sono a riva, l’acqua è di color verde caraibico, in lontananza un piccolo cayo, “Cayo Monos” (ora deserto, ma che fu sede di uno zoo di scimmie), soffia un po’ di vento ed allegri cubani si divertono fra le onde che s’infrangono a riva. All’improvviso una bambina mi corre incontro e mi abbraccia contenta; sorpresa! E’ Yixy con la madre Yiliè, la vicina di Juan incontrate in precedenza, che ha riconosciuto immediatamente la nostra auto da lontano, l’unica Hunday blu in 2398 kmq dell’isola, dopo qualche foto insieme e qualche chiacchiera, ci salutiamo per poi darci appuntamento in tarda serata a Santa Fè, a casa del nostro amico Juan. Sono le 15:15, lasciamo Playa Bibijagua tra promontori di pini in direzione di Nueva Gerona senza fermarci nelle spiagge limitrofe di “Playa Paraiso” e “Punta de Piedra”, proseguiamo sull’autopista per circa 30 km in direzione Santa Fè, passando per “Mal Pais” sino all’incrocio con l’enorme cartello propagandistico “26 Settembre” al quale svoltiamo a sx su un’ottima strada.

Alle 15:50 arriviamo a “Santa Fè” nel Panel 1, a casa di un sorpreso e contento Juan, al quale prepareremo un tipico piatto italiano, ma prima decidiamo di visitare con lui questa seconda cittadina dell’isola sempre dimenticata ed a volte nemmeno menzionata da quasi tutte le guide turistiche. Passiamo tra un gruppetto di grandi grigi palazzi rettangolari sovietici costruiti dopo la rivoluzione,con terrazzi rinchiusi in improvvisate grate di ferro arrugginite di fortuna ed anti ladro, colmi di oggetti di riciclo che straripano di vasetti di latta con fiori, vecchie sedie di legno ed interminabili fili di panni colorati. Tra bambini che giocano in strade polverose e malconcie, risciò con musica a tutto volume e coches de caballo carichi di qualsiasi cosa che possa essere riutilizzato, siamo l’unica auto e non dimeno turisti, che si dirigono, tra banani e agrumi, verso la parte nord orientale dell’abitato. Arriviamo davanti a un cancello bianco di ferro battuto finemente lavorato che recinta un area verde con a lato una grande effige colorata in ceramica raffigurante un pappagallo, “l’Aqua de la Cotorra”, percorriamo un piccolo viale di palme reali e barricone, tra piante di ogni tipo, eucalipti e manghi, fiori colorati e arbusti fino a raggiungere una grande fontana circolare in disuso dopo gli uragani del 2008. Poco più avanti da una casina fatta con sassi bianchi e dal tetto di paglia, sorvegliata da una scultura bianca di un pappagallo, la Senora Mirta, la custode di quest’area, ci spiega che un tempo la grande vasca era ricolma di acqua di sorgente potabile e che tutt’intorno le orchidee crescevano rigogliose sugli alberi, ma che dopo il 2008 tutto si è danneggiato, le piante poco a poco si stanno visibilmente riprendendo, ma la pompa della fonte continua ad esser purtroppo rotta non riempiendo la grande vasca. Lasciamo questo luogo e lungo le quadre schematiche della cittadina ci fermiamo ad un incrocio dove un contadino visibilmente provato dal caldo torrido, su di un precario banchetto di legno espone platani verdi maturi e piccole banane gialle direttamente colte dal suo campo confinante. Acquistiamo degli ottimi platani (5 pesos nac.) e poi partiamo alla ricerca del campo di pina (ananas) del padre di un ex studente di Juan, poiché ci dicono che queste sian le più buone ed economiche della città. Arriviamo in una strada sterrata limitrofa alle case, a lato un campo di ananas con al centro una piccolissima casina di legno dal tetto di paglia da dove esce l’ex scolaro di Juan, che con un grosso macete raccoglierà le “pine” più buone che abbiamo mai mangiato. Visitiamo successivamente la “Mananthial de Santa Rita”, parcheggiamo vicino a grosse piante di mango e distese verdi di Bambù, poco distante da 3 sorgenti naturali ricche di magnesio per la digestione, ferro per gli anemici e di S. Lucia per gli occhi, in particolare i bagni termali, dove nel 1885 i benestanti creoli si bagnavano in queste acque curative sempre calde, poi dimenticati dagli anni’60 fino al restauro nel 2003, che purtroppo oggi versano in condizioni pessime dopo i due uragani Gustav y Ike del 2008; ora è rimasto solo un edificio senza tetto né porte con 2 stanze piene di acqua invasa dalle piante acquatiche. Poco distante vi è una piccola casa bianca, una clinica dove si convoglia l’acqua curativa per tutti coloro che soffrono di malattie come calcoli renali ed epilessia. Continuiamo la visita dirigendoci verso il “Parque Central” di Santa Fè, attraversando il ponte sul rigoglioso rio omonimo, giungiamo in uno spiazzo d’asfalto con al centro un chiosco rialzato, qualche pianta sottostante ad alberi fioriti di Flamboyan con due auto d’epoca parcheggiate ai lati. Qui si concentra tutta la parte commerciale e di svago di questa piccola cittadina nonché di tutta l’isola dopo Nueva Gerona, dove vi sono anche qui cubani immancabilmente in fila. Disposti sui 4 lati della piazza troneggiano il piccolo centro de correo (posta) in un edificio blu e bianco, una pescheria sotto i portici di un altro stabile, una panaderia y dulceria (dalla finestra del retro di un’abitazione), una banca de ahorro (risparmio), una gelateria ed una graziosa piccola chiesa beige; poco distante l’unico cinema “caribe”, una piccolissima casetta bianca. Tutto ciò che esula dal centro si può riassumere in qualche chiosco-baracca di ferro che vende articoli alimentari, una “tienda de divisa” ossia un piccolo supermercato o stanza dove si concentrano i più svariati oggetti (dagli indumenti ai 4 televisori e agli articoli di prima necessità), banchetti di contadini ed il piazzale degli autobus dove si può reperire benzina oltre a Nueva Gerona. Alle 17:15 ritorniamo nella casa di Juan, tra chiacchiere con i suoi amici, qualche sguardo al magnifico quadro di campi verdi che una finestra incornicia alla perfezione e due coccole alla tartaruga, prendo possesso della sua cucina e preparo “spaghetti al pomodoro e basilico” che gusteremo con Juan ed Avilà. Alle 19:15 salutiamo proprio tutti per incamminarci verso l’unica carrettera che porta all’Hotel Colony, ma stavolta purtroppo ritornando per la strada piena di buche che avevamo fatto in precedenza.

Tra distese di palme ed erba bruna, le solite scuole abbandonate, invasi artificiali d’acqua dolce e colline di pini, alle 19:30, sul calar del sole, decidiamo di lasciare la strada principale dopo circa 6 km per svoltare a sx lungo un sentiero di terra battuta rossa immerso in una fitta vegetazione verde per circa 1 km in direzione “Jungla de Jones”. Alle 19:40 circa arriviamo di fronte ad un cancello di legno bianco, non c’è nessuno, solo un gran silenzio immerso in una rigogliosa vegetazione; in lontananza una torre di legno sostiene una cisterna d’acqua ai piedi di una piccola casetta bianca dove due vecchie sedie a dondolo di legno custodiscono questa fattoria stile americano. Entriamo e parcheggiamo vicino ad un grande albero di Anacaguita (l’albero dell’ amore per i frutti afrodisiaci), all’improvviso una bambina si avvicina da dietro e silenziosamente mi pone in mano un frutto di mango per poi fuggire via nella casetta bianca. Poco dopo incontriamo Daxira, una simpatica signora che, nonostante fossimo all’imbrunire e stesse cenando, si offre molto gentilmente di accompagnarci in questo rigoglioso giardino botanico con più di 80 specie di piante, istituito dagli americani Harriss e Helen Rodwars sin dal 1902 (collezionisti di piante ed alberi da ogni parte del mondo). Ci addentriamo in una fitta foresta con alberi di mango, Ayua (come un cactus gigante pieno di spine, cresce solo qui) e Yamagua, lungo una rete di vialetti coperti di foglie relativamente incolti e selvaggi, quando incontriamo due simpatiche scimmiette, Claudia più schiva e Pablo il curiosone, che annunciano il nostro passaggio a Timotea, la mucca bruna di Natalì, figlia di Daxira, che beatamente in lontananza ci guarda continuando a brucare l’erba. Un’oasi di pace e tranquillità nel cui silenzio camminiamo per circa 15 minuti su foglie scricchiolanti percorse da spaventati gechi e piccolissime lucertole marroni, gli uccelli continuano la loro ode al tramonto mentre nella fitta vegetazione del bosco tropicale si fa sempre più buio e tra una miriade di cactus, magnolie, bambù e ponticelli sospesi su ruscelli di acqua trasparente color ulivo, arriviamo purtroppo a ciò che rimane dell’attrazione di questo paradiso, la “Cattedrale di Bambù”. Purtroppo la strada s’interrompe e non possiamo più proseguire, davanti a noi un ponticello semidistrutto e solo un enorme mucchio di rami verdi di bambù; Daxira ci spiega che questi sono i danni degli uragani del 2008 (anche se pian piano la vegetazione si sta riprendendo e loro han potuto sistemare solo fin lì), questa macchia verde è ciò che rimane di uno spazio chiuso circondato da alti bambù che lasciavano filtrare solo qualche lama di luce nel silenzio e lo scricchiolio delle canne al vento. Purtroppo dobbiamo tornare indietro e Daxira ci fa notare i resti della casa dei botanici americani di cui oggi ne rimangono solo le fondamenta di cemento dopo il terribile incendio del 1960. Daxira ci racconta che quando Harris morì improvvisamente a soli 38 anni causa un incidente, sua moglie Hellen decise di continuare il sogno condiviso dal marito occupandosi del giardino purtroppo solo sino al 1960 quando fu tragicamente massacrata e uccisa da 4 malviventi in cerca d’ora fuggiti dal Presido Modelo, che per nascondere l’accaduto incendiarono la casa (furono poi catturati e riportati in prigione). La cosa più curiosa, ci spiega Daxira, è la leggenda che ne è nata, da generazioni si riporta che al secondo piano della casetta di legno dove viveva la coppia, nello studio del sig. Harris, vi fosse anche la tana di un gigantesco serpente, solito scendere le scale lungo il corrimano. Il giorno dell’aggressione Hellen, ormai anziana, armata di macete scese le scale e mozzò la mano del ladro, essa rimase attaccata al corrimano, i malviventi diedero fuoco alla casa ed il serpente per salvarsi dal fuoco scese lungo la ringhiera, molti lo videro allontanarsi nelle fitta vegetazione con in bocca la mano del ladro. I giardini rimasero incolti sino al 1998 e poi successivamente risistemati. Ritorniamo alla nostra auto alle 20:20, il sole ormai è già sparito e sta per scendere l’oscurità ancor più accentuata dalla fitta vegetazione, qui su un ramo di ibiscus rosso compare “Coti”, la cotorra di famiglia che salutiamo insieme a Daxira e Natalì. La sensazione che permane in noi è una sorta di pace misto a tristezza ed inspiegabile amarezza nel lasciare un posto così rilassante e silenzioso.
Riprendiamo la carretera diretti all’Hotel Colony, tra i riflessi aranciati del cielo che si specchiano nell’“Embalse Vietnam Heroico”, il solito incendio in lontananza, una miriade di lucciole ed un passaggio ad Donald, un giovanissimo militare che camminava a bordo strada nel buio, arriviamo all’ Hotel Colony alle 21:10 dove stanchi cadiamo in un sonno profondo
Sgt. Garcia Fan Club Camaguey
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